Guardò il cielo. La luce stava sfuggendo ai margini e la luna iniziava appena a distinguersi. Niente stelle, per ora. Davanti a lei lo spazio si era ristretto mentre la folla rallentava, e sempre meno persone riuscivano a passare al di là. Sapeva che ciò rappresentava la fine di qualcosa, ed era sicura che, in questa nuova luce, altra gente avesse la sua stessa percezione.
3009. Il numero del virus più recente e letale. Nessun vaccino conosciuto.
Tre anni prima, il virus che aveva attaccato per primo era stato denominato semplicemente ‘1’. Da quel momento, alcuni dei virus che erano venuti dopo non avevano destato troppe preoccupazioni. Alcuni erano stati contenuti efficacemente e per altri erano stati trovati dei vaccini. Naturalmente si mormorava che un certo numero di essi, se non tutti, fossero stati preparati in laboratorio.
Lei lavorava a tempo pieno come programmatrice per Epcon, una delle più importanti industrie farmaceutiche. Fosse un incentivo professionale, come diceva qualcuno, o una specie di punizione, come sostenevano altri, di fatto a tutti gli impiegati venivano inoculati i vaccini, non appena disponibili. Solamente vaccini pienamente testati, solamente i migliori per il personale. C’era persino qualche ex-impiegato che, per poter essere vaccinato, tentava di introdursi negli uffici esibendo il proprio vecchio tesserino identificativo. Loro, impiegati in pianta stabile, tenevano la bocca chiusa e il braccio sinistro sempre pronto per l’iniezione. Di cos’altro c’era bisogno? Un lavoro fisso l’avevano, ed era così difficile trovarne, in quel periodo.
Sembrava che la sua vita, che già era a pezzi, si trascinasse in un paese in crisi, anch’esso prossimo al collasso. Le informazioni, a volte anche quelle vere, erano accessibili a tutti nella rete. Ma lei non si fidava. C’erano servizi segreti governativi camuffati da industrie farmaceutiche, industrie farmaceutiche camuffate da servizi segreti governativi, bande criminali camuffate da grossisti di farmaci. Con il livello di panico là fuori, la gente prestava fede a Internet come a una nuova Bibbia. Bevendolo avidamente e venendone poi dissanguata. Non c’erano certezze da dare o da ottenere. La verità era un concetto puramente astratto.
Lei viveva in periferia, nella casa in cui era cresciuta con la sorella. I loro genitori, nella prima vacanza da soli dopo il viaggio di nozze, avevano avuto un incidente stradale. Un camionista ubriaco, per un colpo di sonno, aveva invaso la corsia opposta mentre guidava a cento all’ora il suo autoarticolato. La loro auto era stata investita in pieno, e il camion, uscito di strada, era andato a schiantarsi nel bosco lungo la carreggiata. Erano morti sul colpo. Il camionista se l’era cavata con le gambe fratturate e un periodo di affidamento ai servizi sociali.
Lei aveva appena compiuto i diciotto anni ed era stata nominata tutrice della sorella. Il viaggio per andare a identificare i cadaveri e ricondurli a casa era stato il più lungo che avessero mai fatto. Dopo, non avevano mai più lasciato la città o i dintorni, né erano mai più tornate realmente sull’argomento. Il dolore aveva presso possesso delle loro vite. Lei l’aveva intrappolato, e lo lasciava fermentare dentro di sé, in un luogo ancor più profondo delle sue viscere. Un luogo così profondo che ormai non si rendeva più conto che esso continuava a vivere in lei.
Poi la sorella aveva contratto il 2150 e si erano chiuse, lentamente ma costantemente, al mondo esterno. Come congiunta di un’impiegata, alla sorella veniva somministrata la vaccinazione senza bisogno di particolari domande. Lei iniziò a prendere dei permessi dal lavoro per assisterla e curarla. Però era terrorizzata e, sempre più ansiosa, riluttava all’idea di uscire di casa. Gli attacchi di panico quotidiani facevano ormai parte della sua vita.
Ciò che era iniziato con i permessi si trasformò in lavoro a domicilio a tempo pieno. La sorella, ora anch’essa come perduta al mondo esterno, lasciò la scuola. Era stata assente così a lungo che avrebbe dovuto ripetere l’anno oppure tagliare le spese e andarsene. Era un altro peso finanziario di cui avrebbero fatto a meno.
Lentamente ma costantemente, le loro uscite si ridussero, e presto iniziarono ad allontanarsi da casa solamente per la spesa. Poiché continuavano ad aver diritto alla vaccinazione, un addetto veniva sempre inviato al loro domicilio a somministrarla. Questo contatto, la televisione e Internet divennero i loro unici legami con il mondo esterno.
Quel mattino tutto terminò. Lei era a letto a guardare vecchie fotografie. Sua sorella dormiva nell’altra stanza. Stava cercando di riconoscere i momenti, di riconoscere se stessa. Guardava le scene nelle fotografie, e i diversi luoghi in cui era da sola o con i familiari. Neppure gli abiti che indossava le facevano scattare alcunché. Un enorme spazio vuoto occupava il posto dove avrebbero dovuto esserci i ricordi. Proprio nel momento in cui iniziava a scuotersi dal disagio di quell’assenza, udì un colpo alla porta. Balzò a sedere sul letto, neppure sicura se quel colpo l’avesse davvero udito o solo immaginato. E, subito, un altro colpo. Sentì un grido, forse dalla strada. Ma non riuscì a capire bene.
Con un’occhiata controllò la stanza. Tutto attorno a lei sembrava normale. Incerta, si alzò dal letto, andò alla finestra e sbirciò fuori. C’era la polizia in giro, in assetto antisommossa, e c’era un grande furgone bianco. Vide della gente, uscita in strada dalle case vicine, che guardava incuriosita.
Aveva ricevuto un’e-mail dal lavoro circa una possibile evacuazione, ma non le aveva dato troppo peso. In passato avevano già inviato comunicazioni del genere, ma non era mai accaduto nulla. Era l’opzione estrema, e per questo non l’aveva mai presa sul serio. I colpi continuavano. Scese di sotto e aprì la porta a un poliziotto con un’arma a tracolla.
«È lei Sarah Kenny, 5420301 più uno?».
Sorpresa com’era, le ci volle un po’ a capire di che cosa stesse parlando. Poi le fu chiaro: il numero del suo tesserino.
«Sì, sono io».
«Stiamo evacuando. Prenda la sua roba e venga con noi. Porti il tesserino e i passaporti». Lo guardò brevemente, indecisa sul da farsi, senza sapere da dove cominciare.
«Se decidete di rimanere qui sarà a vostro rischio e pericolo. L’azienda non si prenderà responsabilità, e dopo non vi sarà possibile andarvene. Stiamo avvertendo tutti». Si aggiustò l’arma.
Esitò un istante; il suo primo pensiero – come potremo essere al sicuro fuori di qui? Che ne sarà delle nostre cose? Ricordi, fotografie, vestiti, libri. Poi, d’improvviso, le vennero in mente la sacca dietro all’armadio-guardaroba e i soldi che aveva nascosto sotto al televisore.
Ora o mai più. Era la sua occasione. La loro occasione.
«Presto!».
«Va bene, va bene».
Salì le scale due gradini alla volta e spalancò la porta della stanza della sorella.
«Kelly! È l’ora! Prendi qualcosa e andiamocene».
La sorella era seduta sul letto. Senza aspettarne la reazione, lei tornò nella sua stanza. Sentiva il fruscio dell’uniforme del poliziotto che stava entrando in casa. Dall’alto delle scale ne indovinò la testa, coperta dal casco con visiera. Nella sua stanza prese la sacca e vi buttò dentro calze, mutandine, un maglione, un paio di jeans e del sapone, avvolto accuratamente nella cuffia da bagno. Incapace di pensare ad altro, si sfilò dalla testa la camicia da notte. Indossò mutande, jeans, una maglietta e una felpa. Si sistemò i lunghi capelli in disordine, legandoli all’indietro, si mise le scarpe da ginnastica, afferrò la borsa e uscì dalla stanza. Chiamò la sorella e si fermò in cima alle scale, si volse, tornò nella sua stanza e prese una fotografia dal mucchio. C’era lei da bambina. Seduta sulla spiaggia con il costumino e il sole negli occhi, la paletta in mano e la sabbia nell’altra. Sebbene nella fotografia fosse sola, sedeva all’ombra di suo padre. Appena l’ebbe presa in mano ricordò. Doveva avere dieci anni. Non si erano potuti permettere una vera vacanza quell’anno e così, per una settimana, se n’erano andati tutti i giorni alla spiaggia cittadina, bello o brutto che fosse il tempo. Quel giorno faceva freddo e il vento riempiva di sabbia gli occhi e le orecchie. La mamma insegnava a Kelly a nuotare. Lei e il papà scavavano buche nella sabbia. Mentre l’alta marea si ritirava, lei guardava la mamma e la sorella, minuscole nell’acqua come puntini. Mise la fotografia nella sacca e scese di sotto.
Il poliziotto era uscito e aspettava in giardino. Lei entrò in salotto e, guardandosi alle spalle per controllare che il poliziotto non fosse in vista, sollevò il televisore, prese la busta lì sotto e la cacciò in fondo alla sacca. Andò in cucina e prese delle bottiglie di acqua e un po’ di tavolette di cioccolata. Mentre si guardava attorno alla ricerca di qualcos’altro, chiamò la sorella che stava scendendo le scale con una borsa in mano, e solo la felpa sopra il pigiama. Complice nel suo silenzio, si mise ad aspettarla vicino alla porta, con aria assonnata.
Ritornata nell’ingresso, staccò i giacconi dall’attaccapanni, prese le chiavi dal piatto e uscì. Dopo un ultimo sguardo chiuse la porta e fece scattare la serratura.
«Da questa parte», disse il poliziotto dirigendosi verso il grande furgone. Mentre si avvicinavano videro che dentro c’era già della gente. Nei pochi minuti che occorsero per partire, altre persone apparvero in strada. Avevano cominciato a fare domande e a rumoreggiare, così chiusero in fretta i portelloni del furgone e se ne andarono. Non riconobbe nessuno lì dentro.
«Lei dove lavora?», chiese a una donna che aveva vicino. La donna nominò un’azienda di cui aveva sentito parlare.
Sopra le loro teste le luci del furgone era fioche, e non c’erano finestrini. Così non riuscirono a vedere dov’erano dirette. Ma, vivendo da sempre in quel luogo, intuirono entrambe dove le stessero portando; bastò uno sguardo per capire che pensavano la stessa cosa. C’era un grande parco pubblico a circa tre ore dalla città; probabilmente avevano piantato le tende là, e approntato dei rifornimenti. Continuarono a viaggiare piuttosto silenziose. Lei non aveva il senso del tempo e si era dimenticata di prendere l’orologio. Sicuramente erano passate alcune ore quando si divisero una tavoletta di cioccolata e bevvero un sorso d’acqua.
Per qualche tempo si alternarono soste e ripartenze, come se si trovassero in mezzo al traffico. Infine si arrestarono, e dall’esterno batterono un colpo sul portellone. Quando aprirono, la luce debole del crepuscolo si insinuò nel furgone. Le fecero scendere, le misero in fila e le portarono in una tenda.
C’erano dei computer e sembrava una stazione di polizia. In pochi minuti arrivarono alla fine della coda. Lei esibì il tesserino, che loro passarono allo scanner e le restituirono. Poi i passaporti. Li passarono allo scanner, ne strapparono le pagine con le fotografie e li gettarono in una scatola. Stupefatta, chiese: «Ma cosa fate?».
«Per adesso non vi servono. Vi saranno restituiti quando ve ne andrete… Avanti il prossimo».
Fu trascinata via da un altro poliziotto. Incerta sul significato di quanto era accaduto, per un attimo fu colta dal panico. In silenzio la sorella la fissava, con grandi occhi colmi di domande. Da quando erano partite aveva detto a malapena qualche parola. Ma non c’era tempo per fermarsi. Furono costrette ad avanzare dalle persone che spingevano alle loro spalle. Quando oltrepassarono la porta all’altra estremità della tenda, videro gente dovunque. Tutti si dirigevano verso un grande cancello. I poliziotti, chiusi in voluminose corazze, formavano due linee parallele, a presidiare il flusso della folla. Come festoni, i fucili mitragliatori ornavano i loro petti.
Avanzarono nella folla. Poi lei si sentì come senza volto, libera. Si muoveva senza alcun controllo. Le gambe seguivano meccanicamente chi la precedeva. Kelly veniva dietro. Per una folla tanto fitta c’era una strana immobilità nell’aria. Come se l’aria stessa indugiasse sulle loro spalle, in un modo mai provato prima. E nel momento in cui fu veramente nel cuore della folla, allora lo sentì.
Nell’oscurità che aveva di fronte vide la libertà. Ne venne avvolta come da una luce. E vide una nuova vita distendersi davanti a lei, nell’oscurità.
FINE
Traduzione di Michele Curatolo
Questo racconto, inedito in Italia, è tratto dal libro: “Three Thousand and Nine” (Fingal County Libraries, 2009)